domenica 22 settembre 2013

A Torino c'è il mio nome...

Parto.




Destinazione Torino. Non in lambretta, ma sempre su un ferro: treno.
Mia madre decide che deve partire con dieci minuti di anticipo rispetto a quanto le ho detto. È ansiosa e decido che va bene il suo orario, imposto o meno che sia; mi deve portare lei alla stazione. Non ho molta scelta. Guida male, ma va piano.
Mattinata fredda, anzi fresca, aria tersa; meta del viaggio: Torino. Perché? Facile, semplice, lineare: una foto del mio viaggio estivo è esposta in una mostra fotografica della "Visual", scuola di fotografia di Torino.

Origine: "Appunti di viaggio"
[...]La mostra curata da Davide Giglio presenta le migliori immagini realizzate sul tema del VIAGGIO e sulle sue infinite declinazioni in occasione del concorso fotografico Appunti di Viaggio organizzato dalla Scuola di Fotografia di Torino VISUAL con la Casa del Quartiere di San Salvario e i Bagni Municipali e grazie al contributo di Colorlife, il Laboratorio Stampa Axtra Digital Art e la libreria Diari di Viaggio [...]




Tra le foto in mostra, una è mia. Ho partecipato per caso, per curiosità e perché non potevo non partecipare. E ora viaggio da falso artista verso un luogo che non conosco e che non mi conosce; ricambiamo insomma la non-conoscenza reciproca, e ci stimiamo a vicenda, io ed il luogo che ospita una parte di me. 



Treno regionale, carico di acredine sudoripara, di acne, ormoni poveri e gioventù studentesca. Mi adeguo, sono solo pochi minuti. Ma bastano. Scendendo dal biscione di metallo e tela una ragazza mi urta. L'amica che la accompagna fedelmente le fa notare che ha urtato "il signore". Dico: "Pazienza per l'urto, ma signore no". Ridiamo in compagnia per dieci secondi ed ognuno è libero di andar per la propria via. La mia è breve, arriva al bar e si spegne al tavolo davanti a caffè e brioche. Alla marmellata. Di mirtilli! Provo un senso di pace per qualche attimo, breve. Soggiunge l'ilarità quando vedo il mio vicino di tavolo fare colazione da solo: doppia dose di te, caldo, in due teiere da mezzo litro. "Non avrà problemi di diuresi per la giornata", penso, rido un poco per la scena poco usuale per me.
Decido che avrò sete durante il viaggio e cerco una bottiglia d'acqua per potermi abbeverare in seguito. La compero e volo verso il treno. Torino mi attende. Devo andarmi a vedere in mostra.
Salgo in treno e trovo una stupenda accoglienza da parte dei miei due compagni, scelti a caso per me da trenitalia. Una donna, maestra di fitospagirya - e va a saper che scienza è questa; e poi: si scrive così?- parla. Parla. Parla. Troppo. Parla.
Parla di corna, di amore e sesso -poco sesso in verità-, di mariti e uomini, di posizioni - etiche- di donne. La squarterei già dopo due minuti, gettando volentieri il suo corpo agli squali. Non ho gli strumenti adatti, mancano gli squali giusti e soprattutto sono blindato in treno. Me ne libero a Milano. È scesa probabilmente ad infastidire qualcun'altro; di certo ci riuscirà. Lo so.
Intanto Il servizio di trenitalia è ottimo, affidato ai falsi muti che fanno l'elemosina.
L'altro compagno è più mite, più modesto forse negli usi, nei costumi e nei modi. Si occupa di sicurezza sul lavoro - credo. Legge un giornale di settore e l'articolo su cui è aperto il giornale è così intitolato: "processi e sistemi: cadute dall'alto".
Poche chiacchiere e molto stomaco: ha una smisurata protuberanza addominale che gli impedisce di leggere il giornale da troppo vicino. La vista è probabilmente in equilibrio col suo fisico: non fa uso di occhiali...
Scaricati i due compagnoni di viaggio proseguo, solo in carrozza, verso la meta. Telefonobrigosistemopensoscrivo e... Vorrei dormire. Ma ogni cinque minuti ricevo una telefonata. Colpa mia. In lambretta non sentivo le chiamate, era perfetto. Ed ero giustificato. Medito di abbandonare il telefono in un cestino del treno e di cambiar vita. Ma rinuncio subito al mio proposito: sono arrivato a Torino. Scendo con un sol piede. Appoggio bene, mi guardo attorno e sospiro. Anche la città sabauda è conquistata.
Mi avvio deciso verso l'uscita che ovviamente non è quella giusta. Ne imbocco altre due prima di trovare la via maestra verso la mia mostra. Mi fermo a mangiar qualcosa in un bar all'angolo di un crocicchio. Bevo un bicchiere di un frizzante rosso locale decisamente buono, ironico, amaro, brillante. Mentre consumo un pan con frittata decido che è meglio non perder l'occasione per ordinarne un altro. Accompagnato da un piccolo toast di periferia. La giornata è bella, e anche i brutti ceffi che dominano e frequentano la zona sembrano felici, tutti: neri, bianchi e rossi. Il sorriso li accomuna. Anche la polizia locale sembra felice: con le multe di oggi - metà dei mezzi è in divieto di sosta- potranno acquistare delle nuove palette e dei performanti autovelox...
Mi alzo, pago e mi dirigo verso la meta designata. Lì ho appuntamento con il curatore della mostra che ha piacere di fare la mia conoscenza.







Passeggio egregiamente per Torino, trovo la via giusta ed il numero giusto, ma mi ritrovo davanti ad un cancello di ferro alto ed imponente. Ma soprattutto chiuso. Eppure. Eppure... È qui. Infatti ho solo sbagliato di qualche metro e poco più in là vedo l'entrata del numero 14 di via Morgari. Lì mi aspetto. So di trovare un po' di me stesso. Entro, senza far caso al bancone, alla gente, al cibo; al locale - che è più bar fine per artisti e filosofi di varia natura che una asettica stanza da esposizione artistica; cerco la mia foto e me stesso. E trovo. Piccola ma significativa, per me che di fotografia non ho minima nozione non nego che l'emozione è stata forte. In una sorta di metafotografia immortalo la mia sensazione, subito. Immediatamente.
Educatamente ritorno al banco e ordino un caffè ed un pezzo di torta, leggo la lavagna dei prezzi e vedo una cosa curiosa. Risponde al nome di "Agricolo" e soggiorna sotto la dicitura cocktail. Sono curioso... Ma...




Ciò nonostante mi introduco nella stanza, rimiro la mia opera e proseguo soddisfatto all'esterno. Sono orgoglioso. E non avrei mai pensato di trovarmi in tal posto. Mai.
Sorseggio il caffè e gusto la buona crostata. Osservo la parte esterna della mostra e vedo delle cose di mirabil bellezza. Una esposizione fotografica da degustare.

Curioso. Sono curioso. Lo so. E voglio sapere cosa bevono gli "agricoli" di Torino. Il nome di quel cocktail mi rimbalza impavido nella testa. Lo devo ordinare. Devo scoprire cosa si nasconde sotto all'agricolo. E così ho fatto.
E ho scoperto che si tratta di una cosa non ortodossa per un torinese, meno ancora per un agricolo. Si tratta di Calua e Rum con fetta d'arancia ricoperta di zucchero di canna. A saperlo avrei scelto diversamente, ma sono avviato oramai e devo procedere.
E da manuale funziona così: prima si incamera in bocca il bicchiere di Calua, poi quello di Rum. Si mescola in bocca e subito si addenta la fetta d'arancia. Pensavo a qualcosa di più spartano per la verità ma tant'è. Buono e poco educato, ma efficace, quello non si può negare.




Nel frattempo ascolto le conversazioni varie che si tengono nel locale, da: "A me la relazione aperta mi fa cagare", pronunciata da una gentil signorina alla mia sinistra, a:
"Questo capitalismo ci ha davvero rotto il cazzo". La cosa più interessante di questa ultima affermazione è che viene pronunciata da un ragazzo sulla trentina avanzata, molto filosofia e poca pratica che vaga per Torino e per l'intero globo con Mac e iPhone. Un sinistroide convinto, nella sua incoerenza...




Rimango in attesa, osservando l'ambiente che mi circonda: famiglie, studenti, bambini, artistoidi. Tutto molto bello ed equilibrato. Attendo.
Deve arrivare il curatore della mostra, Davide il suo nome.
Lo vedo entrare, ci conosciamo e discutiamo per cinque minuti, poco più. È accompagnato da una donna che passa con eleganza i cinquanta. E che capisco avere occhio e propensione per le cose belle e di un certo valore. Il breve congedo mi permette di accordarmi per la spedizione della mia opera a casa, gratuitamente. Davide è gentile. E io, finto artista fotovisivo, accetto con gioia la sua non onerosa offerta. Imparo la parte, so come comportarmi oramai. Ci salutiamo e lui si eclissa ringraziando per la mia visita dietro una porta di sicurezza, verso destinazione a me ignota. Rimango nel locale. Ho un altro appuntamento: attendo Bianca, una artista burlesque che ho conosciuto qualche tempo fa in uno spettacolo a Padova. Ero parte dell'organizzazione, diciamo il cinquanta per cento, poichè ad organizzare eravamo in due... Lei è di Torino, temporaneamente una indigena; solitamente apolide. Abita vicino alla mostra, vicino alla casa del quartiere, il locale che ora mi ospita. La vedo entrare, tatuata, sorridente ed immagino di capello fulvo, ne ho conferma solo dopo. Chiacchieriamo un po', ci facciamo compagnia con cappuccino e Barbera; parliamo di spettacoli e di lavoro, vite e impressioni, possibilità e storie. Ma il tempo corre, le mie quattro ore nella città torinese volgono al termine; il treno mi attende e lo devo quasi rincorrere. Mi congedo da Bianca, dalla mia opera, da Torino. Corro verso la stazione ed ordino un orzo prima che il mio treno parta, in verità prima che venga addirittura annunciato il binario che ospita la "freccia" alla volta di Venezia. Che poi tanto freccia non è, diciamolo.
Salgo, trovo il mio posto che mi permetto di snobbare in virtù di un vuoto posto, vicino e comodo, almeno fino a Milano quando sono costretto allo spostamento forzato vicino ad una donna che emana un afrore consistente. Spero, spero, e spero. Spero che scenda prima di me. Alla fine addestro il mio naso a quell'odore fino a Padova. Scendo finalmente prima di lei, alle 21.22. Il suo idioma napoletano non mi poteva certo fare sperare una veloce corsa da Milano a Brescia. Ma sperar non costava nulla mentre annotavo le mie avventure giornaliere su questo foglio.
A Padova mi attende Enrico. Lesto mi trasporta in birreria. Ci raggiunge Gio. Gli Enkel Vag sono al completo; stasera non si prova, si fa festa, si fa tardi. Ancora qualche povera ora da artista prima di consegnarmi per qualche ora a Morfeo.